Arrival (USA, 2016)
Recensione
Storia7.0
Regia8.5
Fotografia8.5
Interpretazione8.0
Originalità5.5
Effetti speciali7.5
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Denis Villeneuve è il regista a cui è stato dato l’incarico di girare il sequel di uno dei film più noti ed apprezzati dell’intero cinema moderno, quel Blade Runner 2049 che è in questi giorni nei cinema. In Arrival, Villeneuve mostra le sue qualità, aiutato da una ottima fotografia, ma allo stesso tempo conferma molti dei difetti del cinema statunitense attuale. Arrival è girato bene, ha il merito di trattare una materia complicata come l’arrivo di alieni da altri mondi in modo diverso dal solito approccio “indiani contro cowboy” ma non riesce a sfuggire alla terribile malattia che affligge ormai molti dei film e specialmente delle serie TV degli ultimi anni: l’irrefrenabile tendenza a trasformare tutto in una soap opera.
L’obiettivo delle soap è ovviamente quello di allungare la durata della serie mentre nei film viene ormai utilizzata questa tecnica per semplificare la trama e, spesso, per evitare di dover costruire un mondo attorno ai personaggi, un contesto che in questo momento diventa difficile da gestire vista la dicotomia tra le produzioni cinematografiche ed il contesto economico e sociale esterno. Questo fa si che Arrival diventi un film estremamente politico proprio per la sua drammatica leggerezza.
La storia non è particolarmente originale: visitatori da nuovi mondi atterrano misteriosamente ed inspiegabilmente sulla Terra, in varie parti del mondo, e ovviamente i nostri abitanti tentano di prendere subito contatto con gli alieni che si mostrano disponibili. La pellicola si gioca sul tentativo di prendere contatto con i misteriosi visitatori e sulla vita della protagonista (una buona Amy Adams).
Proprio questo focus tradisce un po’ la pellicola. La storia ignora quasi completamente qualunque implicazione di ampio respiro su un avvenimento così importante per concentrarsi sulla storia personale della protagonista, come farebbe appunto una soap opera che chiude fuori il mondo per narrare le lacrimevoli vicende personali dei protagonisti. In un film di fantascienza che parla addirittura della visita di alieni al nostro mondo, questo tentativo di essere a-politico è fuori luogo.
Non ci sarebbe implicazione maggiore che l’impatto sulle società di un avvenimento così importante mentre Villeneuve ignora completamente questo aspetto che, colpevolmente, sostituisce con un po’ di propaganda a basso prezzo. Così il tentativo statunitense di prendere contatti con gli alieni sembra naufragare per colpa di russi, cinesi e persino i poveri sudanesi, non a caso tra i nemici attuali dell’establishment statunitense. Villeneuve dimostra quindi di ignorare il contesto perché non gli conviene ma di essere abbastanza bravo ad accontentare i finanziatori. Oltre a questo, poco altro, con la solita minestra del crollo dell’ordine sociale che fa da sfondo a tutto il film e che dimostra come gli statunitensi siano culturalmente avversi a qualsiasi cambiamento che loro vedono sempre come foriero di guerre sociali, rivolte, creazione di caos e bande sulle strade. Molto deludente ma anche una parte che davvero viene solo accennata.
Il film in sé si concentra sulla storia della linguista chiamata a risolvere il mistero e la sua commuovente storia personale che alla fine sarà la chiave per salvare anche il mondo. Anche qui, sebbene l’impalcatura iniziale alla Lost sia ribaltata, troviamo pesanti riferimenti alla teoria del “tutto già scritto e pre-determinato” che agli statunitensi sembra piacere molto e che si concilia facilmente con la Religione. Amy Adams, brava anche quando cerca di essere intensa, risolverà il mistero, riuscirà a contattare gli alieni salvando il Mondo e condannando se stessa all’infelicità.
Nonostante la storia non regga così tanto per i problemi già menzionati, il film è piacevole, diretto bene e con una ottima fotografia che crea una bella atmosfera, giocata sui grigi ed i colori spenti durante tutta la pellicola. Le ambientazioni sono certamente originali così come in fondo lo è il mistero di fondo e cioè quello di riuscire ad interpretare i misteriosi segni con cui gli alieni vogliono comunicare. Manca il respiro di una storia che in fondo si gioca più che altro sulle vicende personali della protagonista, con Forest Whitaker (il militare che guida l’operazione) e Jeremy Renner (il fisico che aiuta Amy Adams e che poi entrerà nella sua vita) che in fondo sono solo spalle ed hanno un ruolo marginale nella storia.
Mancano quasi completamente i riferimenti ai problemi morali ed esistenziali che dovrebbero essere la base di un film di fantascienza, non considerando la storia personale della protagonista come qualcosa di accettabile, e come detto manca completamente la volontà di affrontare l’importante evento dal punto di vista sociale.
Si può vedere, senza aspettarsi di essere davanti ad un capolavoro né in senso generale né della Fantascienza che in ultima analisi ignora quasi completamente la domanda che campeggia sulle locandine : Perché sono qui ?
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