High rise (USA, 2015)
CC’è poco da vedere in High Rise, tranne che un insano numero di attori che fumano di continuo per accontentare l’industria del tabacco. Il film prende le mosse dal romanzo di J.G. Ballard ed è ambientato negli anni ’70, cosa che consente vestiti più eccentrici e, appunto, di riportare in auge i fumatori seriali per accontentare probabilmente qualche finanziatore. La storia è abbastanza scontata, un mix tra i film post-apocalittici che vanno di moda tra gli anglosassoni e che tendono ad accreditare la fine della modernità in caso si metta in discussione l’organizzazione sociale attuale, e quelli che esaltano la ricchezza con la scusa di criticarla.
L’ambientazione è un grattacielo, parte di una serie di torri da costruire, che fa da sfondo alla replica dell’organizzazione della società moderna in un ambito più ristretto. Troviamo così ai piani bassi i poveri, a metà strada una pseudo-borghesia ed ai piani alti i soliti ricchi ed annoiati, il tutto ideato e gestito dal super-ricco di turno (Jeremy Irons), soprannominato l’Architetto, idealmente un riferimento massonico a Dio ma che, vestito quasi sempre di bianco, finisce per assomigliare più al mega-direttore-galattico dei film di Fantozzi.
L’esperimento sociale dell’Architetto consiste nel ricreare nel grattacielo una micro-società indipendente dall’esterno, dotata di tutto, dalle piscine ai super-mercati fino ad un parco sulla terrazza dell’ultimo piano sulla quale corre anche un cavallo. Terrazza però non aperta a tutti così come le dinamiche portano i diversi gruppi sociali ad occupare spazi diversi ed a generare altri conflitti, sempre però localizzati all’interno della struttura.
Tutto sembra procedere bene fino a quando non si scatena l’evento che genera l’Apocalisse. Nei film di solito è una guerra di enormi proporzioni mentre in questo caso ciò che mette in difficoltà la fragile stabilità del grattacielo è un blackout che rende la maggior parte dei servizi non più disponibili. E’ sentire comune degli anglosassoni e delle loro società disgregate che questi eventi generino poi una società del caos che porta la civiltà indietro verso la barbarie. In realtà, il messaggio più politico di questo tipo di concezione è che, non più protetti dalla razionale (sebbene a volte lussuriosa e persino apatica) organizzazione dei ricchi, i poveri esprimano le loro frustrazioni distruggendo tutto ma senza riuscire a ricreare una organizzazione sociale alternativa che non sia basata sulla mera forza e sulla divisione in tribù primitive certamente per pensiero se non per mezzi.
Il grattacielo di High Rise non fa eccezione ed il blackout scatena guerre sotterranee, dalla ricerca di cibo a quella di donne, che trasformano l’interno in una specie di selvaggia prateria urbana. Una nuova normalità tornerà solo con il giorno ed il ritorno della corrente elettrica visto che il grattacielo (nella sua interezza) aveva rifiutato l’aiuto dall’esterno.
Essendo una trasposizione del libro di Ballard, non si può imputare al film la mancanza di originalità, semmai la scelta di una idea più in voga negli anni ’70 ma ormai datata nel 2015 è stata probabilmente avventata. Ben Wheatley, il regista, non fa però nulla per adattare la storia ad una visione più moderna, preferendo sfruttare le possibilità date dal romanzo di creare un micro-mondo sconvolto dall’Evento e proseguendo sulla strada di una trasposizione interna di Fuga da New York. A questo si aggiunge un maschilismo di fondo che porta ad avere personaggi femminili sostanzialmente inutili e che in fondo si esprimono solo attraverso le relazioni sessuali nelle quali sono coinvolti, rimanendo succubi di amori e di odio per tutto il film.
Non che il film sia diretto male e la fotografia è persino molto buona ma la storia, spesso noiosa perché banale, non aiuta ad esprimere particolari qualità e le interpretazioni non fanno eccezione. Buoni attori come Tom Hiddleston, Jeremy Irons, Sienna Miller e Luke Evans non riescono a sfuggire a personaggi che oggi hanno poco spessore. E’ probabile che la colpa sia principalmente del romanzo che poteva essere lasciato dov’era.